Mario Botta
"Ora basta con le città verticali"
La cupola di vetro del museo di Rovereto, il restauro della scala e le mille polemiche. Pensa che l'era dei grattacieli sia finita: li vogliono solo gli orientali che ci copiano. Mario Botta, architetto sessantenne, ha scritto un suo "quasi diario". E' il tempo delle città che dilagano e si innalzano tra opulenza e povertà, tra bellezza, volgarità e speculazione, che cercano nuove immagini simboliche alla ricerca di una identità, è il tempo degli architetti-star, i veri creatori di un'arte contemporanea non volatile né vuota, il tempo del costruire itinerante, della globalizzazione delle metropoli, del progettare a Londra i palazzi di Shanghai e a Basilea quelli di Tokio, mentre è a Milano che Gae Aulenti ha disegnato il nuovo museo di arte asiatica di San Francisco e Vittorio Gregotti due nuove città in Cina.
Ma è anche il tempo, dice Mario Botta, «di rivedere criticamente i modelli di sviluppo urbano dopo la tragedia americana dell'11 settembre 2001. La città in verticale è un mito in crisi, non ha più senso concepire luoghi di lavoro al 50º piano di un grattacielo, quando si potrebbe installarli in spazi orizzontali molto più rassicuranti e vivibili. Costruire in altezza oggi non è più funzionale, è una forzatura se non lo impone la forma del terreno ad isolati come a Manhattan: perché comunque hai bisogno di spazi enormi per creare attorno al grattacielo quei giardini, quei vuoti, che li rendano umani. Londra per esempio, è attraversata da un grande fiume, ha orizzonti vasti, su cui i grattacieli non incombono. Mentre Milano il fiume e gli spazi non ce li ha».
Mario Botta, 60 anni, ticinese, è di quelli che girano i continenti, partendo da una vecchia filanda di Mendrisio dove vive, per costruire il più grande teatro del mondo accanto allo storico Mariinsky a San Pietroburgo, o due palazzi attrezzati con la più alta tecnologia per l'ultima generazione di programmatori di computer a Hyderabad in India, o un museo d'arte contemporanea a Pechino: «Bisogna stare attenti ai cinesi perché sono pronti a divorarci. Questo museo è voluto da un'università a carattere scientifico che ha capito l'importanza della trasversalità, di come scienza e arte debbano convivere per mantenere quel tesoro inestimabile che è la cultura». E' appena tornato da Seul viaggiando, come tutti quelli che lo fanno per lavoro, con la velocità un po' demente di una fuga costante da ogni luogo: Zurigo-Seul-Milano in tre giorni. Anche lui ha ceduto al grattacielo, o quasi: «130 metri di altezza, 30 piani, è un grattacielo imperfetto, un quasi grattacielo, le due torri Kyobo Towers, che si innalzano come un segno di riconoscimento nella Babele, nell'amalgama infinita di queste metropoli asiatiche». Alla Royal Academy di Londra, Sky High, la mostra dedicata ai grattacieli, curata da una massima celebrità, il settantenne architetto dandy Norman Foster, (progettista tra l'altro del famoso "cetriolone erotico", la nuova torre londinese di Swiss Re), chiarisce che non sono più gli Stati Uniti la patria delle costruzioni verticali, ma le nazioni asiatiche dove si moltiplicano come simbolo di prestigio, ricchezza, potere, competitività, sopra le periferie degradate, le baraccopoli, milioni di miserabili: «Il problema è che l'India, la Cina, la Corea, con l'avanzata capitalista, prendono il peggio del modello occidentale, trasformano le città in una caricatura di quelle americane, sono incantate dall'high tech, dal vetro, dallo specchio, dall'acciaio, le riducono a scintillanti luna park, distruggono interi quartieri storici. Un errore che anche noi abbiamo fatto in passato, di cui in Europa ci siamo pentiti, ho detto al vicesindaco di Shanghai, che mi ha risposto entusiasta: "Ma noi questi quartieri li ricostruiremo più belli e più antichi di prima"». Sono gli architetti che come Mario Botta girano il mondo per costruire ovunque i palazzi del potere e della ricchezza, ad essere testimoni diretti della terribili disuguaglianze della modernità. Lo racconta nel suo bel libro appena pubblicato, Quasi un diario, che gli assomiglia: scritto molto bene, senza supponenza professionale, come è il suo aspetto di uomo mite e sereno, attento agli altri, appassionato del suo lavoro, appartato. Ecco il suo arrivo a Mumbai in India, che lo sconvolge per la moltitudine di diseredati, «scheletri vestiti che allungano lo sguardo per sollecitare dal fondo della notte un disperato obolo», fagotti umani che improvvisano giacigli lungo la strada dell'aeroporto. «La povertà metropolitana è terribile: si condividono gli stessi spazi, si utilizzano le stesse strade, si fruiscono i medesimi paesaggi. La battaglia per sopravvivere che la povertà affronta ogni giorno si svolge, quasi fosse naturale, tra gli spazi osceni della nostra opulenza».
Tranquillo per natura, Botta «si imbestialisce», come dice lui stesso, quando gli attacchi contro il suo lavoro sono «strumentali e ideologici», come è capitato per la Scala di Milano del cui restauro-rifacimento si sta occupando. Però gli passa subito, perché, «dopo un lungo periodo di disinteresse dei cittadini verso le trasformazioni nella loro città, ben venga la protesta, l'attenzione per i valori simbolici delle istituzioni in cui tornano a identificarsi». E cita Le Corbusier che osservando a Parigi una manifestazione di operai che chiedevano migliori condizioni di vita, commentò, «Finalmente la strada ai pedoni!». Quando il Piermarini mise mano alle scene, dice l'architetto, l'illusione ottica si otteneva con le candele. Dopo, il primo intervento pesante lo fece Luigi Canonica, nel 1816, e via di seguito, ci furono interventi negli anni '30 e dopo la ricostruzione, soprattutto negli anni '50.
«Le demolizioni di oggi riguardano solo il cemento armato: bisognava vedere cosa era il tetto del teatro, una foresta di costruzioni abusive una sull'altra, un vero disastro, una cosa indifendibile. Abbiamo immagini che fanno paura. La voragine che spaventa tanti cittadini e che riguarda solo il palcoscenico è quella che consentirà di avere un teatro tecnologicamente moderno, finalmente». Quanto alla torre scenica, anche quella causa di indignazione «supera solo di due metri e 40 centimetri quella precedente, solo che adesso abbiamo fatto ordine in quell'accozzaglia di cemento. Il Piermarini è venuto a trovarmi in sogno, e si è complimentato per il nostro lavoro. Io credo nel confronto, così ho incontrato i responsabili di Italia Nostra, e anche Milly Moratti e penso che mi vogliano bene. Però ho detto loro: dove eravate quando hanno stanziato 87 miliardi per i lavori, era allora che dovevate intervenire, non ad appalti conclusi e a cantiere aperto». Un esempio bello di integrazione «tra l'immagine figurativa dell'antico e quella astratta della modernità» è il Museo d'Arte Moderna di Rovereto, dove una cupola di vetro e acciaio e una ampia costruzione parzialmente interrata si servono della facciata di due antichi palazzi: «Ci sono voluti 14 anni e sette amministrazioni per concluderlo. Ma la forza dell'architettura è di non avere i tempi delle elezioni e di rispondere solo ai bisogni della collettività. Arrivare alla fine mi è sembrato un miracolo. Ma si partiva da un gesto elegante di rinuncia da parte del capoluogo, Trento, da un territorio fertile di valligiani un po' duri, da una città dalla bella cultura mitteleuropea, la città di De Pero, di Melotti, di Sottsass».
Tra Los Angeles e Rovereto, sceglie Rovereto, «perché le città piccole hanno qualità di vita straordinarie». Lui stesso vive «ai margini, perché le condizioni di frontiera sono un privilegio, e consentono di guardare al mondo in modo più disincantato, di non subire le pressioni del centro, dove la gestione del potere pone limitazioni, costringe all'autocensura».Mario Botta si definisce italo-svizzero: figlio di madre italiana, si è laureato a Venezia con Carlo Scarpa, la sua lingua è l'italiano, la sua città di riferimento non è Zurigo ma Milano, che considera la sua capitale morale, la sua sorgente culturale: si sente svizzero ma pensa che la sua patria sia molto più larga. Gli capita di pensare alla Svizzera come Dürrenmatt, che la giudicava una prigione, ma anche di capirne il paradosso, oggi essenziale, di riuscire a tenere insieme le differenze: e scrive «Il pericolo della Svizzera è quello di morire soffocata dai suoi stessi privilegi». Ricorda sempre cosa gli disse lo scultore Alberto Giacometti, suo compatriota, «Poveretto, sei svizzero anche tu, dovrai fare tutto da solo».
Nel suo lavoro, Botta non dimentica una frase di Heidegger, «Abitare viene prima di costruire» e una di Ruskin, «E' anzitutto alla casa di abitazione che occorre rivolge la massima cura. Se gli uomini vivessero veramente da uomini, le loro case sarebbero dei templi». E rivendica «il primato di una condizione dell'habitat radicata alla geografia, alla storia e alla cultura, ove l'uomo oltre a prendersi cura di sé, cerca le proprie radici e consolida le proprie tradizioni». Diffida degli esempi americani «perché i loro palazzi, anche stupendi, sono come oggetti di design ingranditi, senza storia né memoria». Non gli piace il postmoderno perché, come ha detto una volta a Max Frisch, architetto diventato grande scrittore, «è un virus, una degenerazione, una moda che confonde il bisogno di storia con lo stile». La bellezza è nella vecchia Europa che «non ha colto del tutto le possibilità di resistenza alla banalizzazione del moderno, la forza degli anticorpi della storia, del tempo, che è l'architetto più straordinario, più estroverso, meno legato all'ortodossia». Ovunque ci sia passato, persino nelle favelas di Mexico City, c'è una possibilità di futuro: «Nella loro povertà, appartengono alla vita urbana, fanno meno paura di un'architettura razionalista, sono meno pericolose di uno spostamento, allontanamento in quartieri nuovi che sradicano la gente e la privano della loro storia». Il vero dramma del nostro tempo «E' la nuova mobilità dei poveri: a Zurigo sono bastati 200 diseredati che si sono installati nel parco per mettere in crisi tutta la città. Ma queste migrazioni sono inarrestabili, e anziché esasperare le chiusure, la difesa, la sicurezza, le nostre città dovrebbero accogliere questa disperazione e imparare prima di tutto a offrire alloggi decorosi. I senza tetto sono persone a metà, la casa non è solo un rifugio, una protezione, ma è dignità, è memoria e partecipazione alla vita collettiva».
di Natalia Aspesi da La Repubblica del 02.07.03
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